La Parola al Maestro: Chi vuole scagliare la prima pietra?

Premessa: quel che segue è una mia considerazione personale di quella parte del mondo del pro wrestling che rimane “sporcata” da fatti, eventi e situazioni che rendono la disciplina che tanto amiamo fonte di discussione da tantissimi anni. Si tratta, come detto, di qualcosa di “personale”, non necessariamente condivisibile ma che invito tutti a leggere, per poi trarne le proprie conclusioni.


La settimana passata è stata all’insegna della docu-serie di Netflix dedicata alla figura di Vincent Kennedy McMahon jr, per tutti noi Mr.McMahon, con dettagli, interviste e dichiarazioni per molti appassionati di wrestling estremamente scioccanti, tanto che l’ex-chairman della WWE pare abbia fatto di tutto per bloccare ed acquistare alcune interviste “incriminate”, anche a fronte della sua causa legale contro l’ex-dipendente (e a quanto pare sua “concubina”) Janel Grant.

Precisiamo prima di tutto che queste “rivelazioni sconvolgenti” sono, per il fan di vecchia data, quello che segue le newsletter e gli articoli come questo che state leggendo, abbastanza acqua passata, essendo il personaggio (reale, non in ring) di Vince McMahon ampiamente trattato in libri, serie come “Dark Side of the Ring” del canale americano Vice e – appunto – siti web specialistici del settore. Pertanto quel che segue non è una mera e pedissequa ricerca dei fatti salienti della docu-serie, ma una considerazione fatta a posteriori incanalando le informazionI avute anche dal passato.

La figura di McMahon è sicuramente una delle più cupe ed al contempo interessante del mondo del pro wrestling, e su questo non penso si possano avere dubbi in merito.

Ma è anche vero che senza Vince McMahon saremmo qui a parlare del nulla.

E’ lui che, ipotecando casa e giocando il futuro suo e della sua famiglia, decise di puntare tutto sulla sua federazione di wrestling, facendola uscire dai ghetti e dalle sale da gioco avvolte dalla nebbia di sigarette, da quelle arene ad uso e consumo solo di uomini e ragazzi infoiati, per arrivare nelle case di ogni famiglia con personaggi fantasiosi, giocattoli, quaderni, penne e amenità varie.

La sua visione del pro wrestling è praticamente il wrestling moderno, sia che guardiate la WWE attuale che altre federazioni (AEW compresa). Certamente, i passi avanti, l’evoluzione e la crescita hanno preso il sopravvento, creando derivazioni, nuovi modi di concepire certe mosse sul ring, certi angle, certe situazioni.

Ma se riflettete a lungo, comprenderete come ogni match, ogni avvenimento, alla fine sia solo la rifinitura di ciò che McMahon ha creato (peraltro partendo da cose che già esistevano, ma perfezionandole al momento giusto: pensiamo, una su tutte, alle entrance theme di ogni lottatore di wrestling).

Nel documentario Vince è ritratto in maniera spregevole: un uomo senza cuore, dedito solo al business, a volte ben lontano dalla sua famiglia che però ha voluto a tutti i costi inserire nella sua vita, non solo personale ma anche sul ring, creando situazioni e rivalità “finte” che rispecchiavano alcune situazioni che molto probabilmente aleggiavano in casa da tempo.

La famigerata storyline – poi ovviamente rifiutata – del legame incestuoso con la figlia Stephanie ne è il lato più estremo, più disgustoso, un eccesso. Ma siamo stati tutti entusiasti di vedere lo scontro, anche fisico, tra padre e figlio sul futuro di due federazioni (la WWF e la WCW), e di vedere il figlio massacrare il padre schiaccandogli un bidone della spazzatura in piena faccia. Quindi… chi sta sbagliando? Il creatore o lo spettatore?

Due momenti chiave della docu-serie devono poi far riflettere:

McMahon parla di Chris Benoit, molti anni dopo l’errore (in buona fede, va detto) del Raw a lui dedicato, seguito dalla damnatio nei secoli a venire per l’orrendo duplice omicidio-suicidio che ha messo a dura prova la vitalità del wrestling in tutto il mondo. Da noi, addirittura, fu un colpo davvero micidiale: la WWE scomparve da Italia 1, portandosi via tutta quella fetta di pubblico casuale, non i fan accaniti, che permettevano a noi appassionati di vedere finalmente il wrestling al posto che gli spetta. Ci sono voluti molti anni per rivedere la WWE tornare a lidi televisivi più graditi, e tutt’ora siamo ben lontani da quei periodi.

L’ex-chairman non si risparmia, parla di lui come di un grande atleta (considerazione che nessun vero appassionato di lotta libera può esimersi dal non condividere), ma parla anche di come lui, gli steroidi o la pressione fisica sul ring c’entrino ben poco con quel che è successo.

Che ci crediate o meno, mi sento in parte di condividere questa opinione: il mondo del wrestling conta miglialia di lottatori nella sua storia, molti senza la fortuna di aver partecipato a nessuna WrestleMania (figuriamoci esserne nel main event della ventesima edizione!) e senza alcun palma res di rispetto come quello di Benoit; altri, invece, condividendone la pressione dell’essere in prima linea, di avere una cintura importante intorno alla vita e di cercare di essere sempre quello che la Federazione si aspetta da te.

Ma in entrambi i casi, non si è mai sentito che l’una o l’altra cosa abbia portato ad un orrore come quello del Rabid Wolverine.

Stesso dicasi per il binomio steroidi & colpi violenti sul ring: Harley Race lottava ogni giorno, il doppio nei weekend, eseguendo la sua headbutt esattamente come Benoit. E come Benoit la storia del wrestling è piena di lottatori imbevuti fino al midollo di sostanze che sono ben lontane dalle simpatiche Zigulì. Ma anche in questo caso, omicidio e suicidio non fanno parte dell’equazione.

Ma allora, cosa ha provocato una reazione così orrenda?

Non c’è una spiegazione semplice: è come quando accendiamo la TV e vediamo quel bravo ragazzo di famiglia che massacra a colpi di accetta il padre, la madre ed il fratellino che tanto amava giocare insieme. Succede, qualcosa nella testa improvvisamente smette di funzionare (o si aziona, vedete voi), causando un inferno nella mente e provocando qualcosa di orribile e di inesplicabile.

McMahon tratta anche in maniera brutale poi il caso Owen Hart ed il fatto di aver continuato, dopo la sua tragica morte, schiantandosi dall’alto sul ring durante la sua entrata al pay per view “Over the Edge” del 1999, ad andare avanti, come se nulla fosse.

Il suo modo – va detto – è veramente di quelli che farebbero storcere il naso anche ai fan più accaniti, una mancanza totale di empatia verso una situazione davvero da far chiudere lo stomaco. In pratica, continua a giustificare la sua scelta come una decisione di business, che avrebbe accettato anche se il sangue sparso sul ring fosse stato il suo.

Eppure.

Pensiamo ad un attimo, tutti noi abbiamo desiderato in cuor nostro che quel maledetto show fosse sospeso, per onorare una morte così atroce, improvvisa. Io stesso la penso così, ovviamente.

Ma la WCW, solamente per non aver mandato in diretta un ppv per via di un guasto tecnico, perse moltissima credibilità ed abbonati, dando un colpo durissimo alla sua già precaria situazione di ascolti e di vita.

Pensiamo a cosa sarebbe successo, sicuramente avremmo visto McMahon in maniera molto più umana, ma il caos mediatico avrebbe acquisito una forza da tornado f-12. Dietro quei due che se le danno di santa ragione c’è un meccanismo oliato, perfetto, che dà da mangiare e vivere a tantissime altre persone implicate in staff, pubblicità, terze parti e via dicendo.

E’ un po’ come quando si dice che i giocatori di calcio dovrebbero smettere di prendere “quei soldi” e chiudere il campionato per un anno, dimenticando però che dietro quella partita vivono centinaia e centinaia di persone.

Avrebbe fatto bene a chiudere lo spettacolo seduta stante? Senza dubbio.

A conti fatti, l’unica, umana decisione da prendere doveva e poteva essere solo quella.

Ma un uomo di business come lui, dovendo scegliere al momento, ha scelto per la via più cinica, tremenda ed inumana… e la WWE è sempre qui, la guardiamo noi tutti.

Qual è quindi la conclusione? Che cancellare o giudicare un uomo così complesso, così sfacettato, così oscuro non può e non deve essere ridotta al “giusto” o “sbagliato”. Nella zona grigia che sta in in mezzo a queste due parole, Vince McMahon ha costruito un impero, una vita, una famiglia in cui ha incluso, volenti o meno, anche noi.

Che, nonostante siamo disgustati, ci troviamo tutti di fronte a Netflix a vedere di quest’uomo che ha cambiato il modo di concepire il wrestling.

Cancellare quel che è stato non serve. E McMahon era figlio di un mondo che – fortunanatamente – si è evoluto e non esiste più, almeno in parte. Ma leggete il libro di Justin Roberts, ex-annunciatore della WWE ed ora in forza alla AEW, e capirete come la cultura di cui era imbevuto il patron della WWE fosse abbastanza comune in gran parte del backstage e dello staff… ed anche in alcuni nomi importanti.

Scagliare la prima pietra quindi serve a ben poco.

Comprendere, studiare, imparare ed evitare errori o decisioni discutibili, invece, deve essere la prerogativa di tutti. Per non avere un nuovo McMahon anche in futuro.

Il Vostro Sempre (poco) Umile Maestro Zamo

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