The Hard Truth #5 – Non si piange nel wrestling

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“Non si piange nel baseball!”


Così esclamava il coach Tom Hanks per consolare una giocatrice nel film “Ragazze vincenti”, popolarissimo negli USA. Questa battuta è entrata nel linguaggio comune americano, a significare che lo sport deve veicolare soltanto sentimenti positivi: è una via di fuga dalle amarezze della vita di tutti i giorni, e va affrontato con fiducia, ottimismo e gioia, sopportandone gli occasionali affanni e fatiche. Anche l’eventuale sconfitta va accettata col sorriso sulle labbra e la consapevolezza che non c’è disonore nel soccombere dopo avere dato tutti se stessi. Ma come mai, in questo come in molti altri casi, il wrestling sembra essere la pecora nera di tutti gli sport? Come mai col passare degli anni dobbiamo sorbirci un profluvio sempre crescente di quarantenni che grondano lacrime come vitelli, o donne mature che frignano come poppanti a cui è stato tolto il ciuccio?

Intendiamoci: nella nostra amata disciplina, il piangere per una sconfitta è un evento raro. Il più delle volte è il cogliere una grande e importante affermazione a scatenare sfrenate crisi di pianto, per la commozione provata nel ripensare a tutti gli sforzi per giungere a quel traguardo. Nel weekend di WrestleMania appena concluso Cody Rhodes ha conquistato il primato di più grande Crybaby di sempre, scassandoci i gioielli di famiglia con quasi un’ora di grottesca autocelebrazione post-match, ripetuta nel Raw della sera dopo con patetici appelli al padre scomparso e un video di omaggio talmente sdolcinato e colmo di saccarina da cariare i denti di milioni di spettatori. Ovviamente, c’è chi partecipa al sentimento generale trovando questo tempo sprecato un momento di grande televisione. Io non la penso così. Penso che in questo sport le lacrime siano un abominio che va a negare la componente agonistica come non riuscirebbe a fare neanche il Meltzer più intransigente. Non ci credete? Leggete fino alla fine e poi vedrete se non vi avrò convinti.

Avete presente il concetto di Kayfabe? Il wrestling deve essere venduto come una vera e propria competizione, e i suoi praticanti sono tenuti a comportarsi come autentici sportivi. Ora pensateci un attimo: ma quando mai i giocatori che hanno appena vinto un Mondiale o una Champions League si mettono a piangere di gioia? Esultano, si abbracciano, urlano, corrono come matti, fanno gli idioti, si portano in trionfo a vicenda, si beano dell’adorazione del pubblico, ma NON frignano. L’umiliazione di singhiozzare come bovini è riservata ai perdenti, a quelli che non ce l’hanno fatta e non seguono l’aurea regola di Tom Hanks nel provare soddisfazione per il compimento del proprio dovere. Ma guardate pure gli atleti di ogni disciplina olimpica, e ditemi se ce n’è uno che, appena vinta la medaglia d’oro, vagisce da moccioso invece di gloriarsi come un vero campione.

Ed ecco perché il pianto nel wrestling è una colpa tanto grave: col loro comportamento, gli atleti ci stanno dicendo che il match per cui abbiamo appena finito di esaltarci è stato una mera finzione, e la loro reazione innaturale rompe il tacito codice stabilito fra loro e gli spettatori. Se vediamo la WWE come una dura e feroce competizione fra i combattenti più forti del mondo, come si concilia un comportamento così insensato con un’idea realistica della disciplina? Perché Cody non è semplicemente felice di avercela fatta, come succederebbe a un qualunque sportivo?

Se avete una certa età come me, sarete stati fan dell’anime “Il grande sogno di Maya”, in originale Garasu no Kamen (“La maschera di vetro”). In esso era espresso un concetto importante ma poco compreso: tutti gli uomini sono come attori che, recitando sul palcoscenico della vita, indossano una maschera di vetro, la “faccia buona” che mostrano alla società, per nascondere i propri veri sentimenti, e se la tolgono solo quando nessuno li sta osservando. La protagonista Maya, promettente attrice teatrale, mentre interpreta una commedia allegra e spensierata si lascia scappare una sola lacrima di dolore per la morte appena avvenuta della madre. La sua severa tutrice e insegnante nota quella reazione e va su tutte le furie, rinnegando la pupilla e costringendola a ricominciare da capo in un lungo e doloroso tirocinio.

Che cosa c’entra questo col caso di WrestleMania? Anche Rhodes non è stato professionale. Ha rinnegato la narrazione agonistica del match per egoismo nel pensare ai propri sentimenti privati. Quello non doveva essere un momento di pianto serioso ma di pura e incontrollabile gioia. E non è stato solo lui a sbagliare. Come possiamo perdonare la pessima figura della solitamente brava Samantha Irvin nell’annunciare il nuovo campione? Che cosa significava quel filo di voce tremante e strozzata che faceva rimpiangere l’enfasi tonante del miglior Howard Finkel? A quale titolo una ring announcer dovrebbe perdere la favella per la troppa emozione? È forse legata sentimentalmente a Cody o all’orrido Sami Zayn della sera prima, per togliersi la maschera ed uscire dal proprio ruolo istituzionale? Sono errori che, in una federazione seria, non possono essere tollerati.

Per essere onesti, non tutti i Wrestler sono così. I veri campioni, i fenomeni, i super vincenti di ogni epoca di certo non gemevano dopo avere messo le mani sull’agognata cintura: gli Hogan, Warrior, Undertaker, Stone Cold, The Rock, Cena, Batista aggiungevano il titolo al loro nutrito carniere fra sorrisi, taunt e braccia alzate, senza particolari slanci emotivi. Se ci fate caso, solo i più deboli e svantaggiati si lasciano andare al libero sfogo dei propri impulsi. Ma adesso è ora di darci un taglio. Il wrestling può trovare il rispetto che merita solo sfrondando la propria immagine da lugubri piagnistei.  Dopo WrestleMania bisogna instaurare uno stretto regime di controllo delle emozioni: possono essere mostrate solo quelle utili ad esaltare la bellezza dell’incontro o la grandezza della competizione.  Chi sgarra deve essere punito con il licenziamento in tronco. La gioia virile dello sportivo deve risplendere sui volti dei vincitori. E mai più, in alcuna circostanza, si devono vedere atleti che lasciano cadere la propria maschera di vetro.

E questa, amici miei, è la verità.


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